TELESCOPI OTTICI, RADIO, X: PRINCIPI E DIFFERENZE – SECONDA PARTE – Radiotelescopi
La radioastronomia è una scienza piuttosto giovane rispetto all’astronomia ottica: trovò infatti i suoi primi sviluppi durante gli anni ‘30 del 900, oltre 300 anni dopo le prime osservazioni nello spettro visibile. Fu Karl Jansky, ricercatore presso i Bell Telephone Laboratories nel 1931, utilizzando un array di antenne di oltre 30 metri di lunghezza, che registrò una radiazione avente lunghezza d’onda λ = 14.6m (20.5 MHz), dimostrando che doveva essere di origine extraterrestre. Il “sibilo” debole ma continuo rilevato dall’antenna di Jansky, sorgeva e tramontava su base giornaliera, dando così l’impressione di provenire dall’esterno del nostro pianeta. Anche se inizialmente sembrava causato dalle emissioni radio del Sole, calcolando più precisamente le coordinate celesti di provenienza, si capì che questo segnale veniva dalla costellazione del Sagittario, ossia dal centro della nostra galassia. Pochi anni dopo l’ingegnere Grote Reber pubblicò su una rivista di astrofisica i risultati delle sue osservazioni con il primo radiotelescopio parabolico a λ = 1.87 m mostrando la prima radio survey di una galassia. Migliorando poi le tecnologie radar sviluppate durante la seconda guerra mondiale, le osservazioni in banda radio fecero enormi progressi e il mondo scientifico-astronomico cominciò a interessarsi a questo campo.
Un radiotelescopio è costituito da un’antenna composta da una superficie riflettente che raccoglie la radiazione e da un ricevitore che rileva, filtra e amplifica la radiazione raccolta. Siccome si lavora a lunghezze d’onda comprese fra circa 0.5 mm (600 GHz) e 20m (15 MHz), la struttura dei radiotelescopi è meno “vincolante” di quelli ottici. Le antenne posso infatti essere sia grandi parabole sia reti filiformi che si estendono per molti metri. Per avere una sensibilità di ricezione adeguata infatti basta che le dimensioni della rete che compone la struttura siano minori o uguali a λ/4.
Il segnale radioastronomico non presenta alcuna modulazione, si manifesta come un segnale incoerente a spettro continuo irradiato contemporaneamente su tutte le frequenze, ovvero come un rumore.
Antenne
L’antenna lineare, costituita da fili metallici, è quella di costruzione più semplice ed è utilizzata per lunghezze d’onda λ > 1 m. Generalmente la struttura è fatta di più fili, con forme diverse. È organizzata in modo che gli array costituiscano un dipolo. Attraverso di essa è possibile rilevare la radiazione elettromagnetica della sorgente e trasformarla in segnale elettrico. Un esempio tipico è l’antenna Croce del Nord a Medicina (Bologna) costituita da due serie di antenne: una orientata da Est a Ovest e l’altra da Nord a Sud, la prima una singola grande antenna lunga 546 m e larga 35 m e costituita da 1536 dipoli, la seconda un array lineare costituito da 64 antenne poste a 10 m di distanza l’una dall’altra.
Per lunghezze d’onda λ < 1 m si utilizzano paraboloidi singoli, simili a quelli usati nei telescopi ottici, ma sempre costituiti da maglie metalliche, oppure configurazioni più complesse multi dish (interferometri, vedi § 3.4). Il riflettore primario (in alluminio) è una superficie parabolica, che mette a fuoco la radiazione incidente verso il sub-riflettore, che è il riflettore secondario, iperbolico, che a sua volta riflette le onde incidenti verso gli illuminatori (feed). Il sub-riflettore può anche essere ruotato per direzionare la radiazione a feed differenti (di diverse frequenze). Il ricevitore converte quindi in voltaggio elettrico le onde rilevate per poi essere elaborate e visualizzate da opportuni software di analisi.
Come nei telescopi ottici la risoluzione di uno strumento, è direttamente proporzionale alla lunghezza d’onda λ: Theta=1.22 λ/D
dove D è il diametro del telescopio o la massima distanza tra i telescopi negli array. Lavorando però su λ che vanno dal millimetro a qualche metro è ovvio che a parità di diametro il radiotelescopio ha una risoluzione di diversi ordini di grandezza più bassa di un telescopio che opera nell’ottico a lunghezze d’onda dell’ordine del micrometro.
Parametri di rendimento dell’antenna
Un’antenna è generalmente descritta da alcuni parametri, che ne definiscono le prestazioni. I principali sono l’efficienza e la forma del power pattern beam.
L’efficienza di apertura descrive il rapporto tra l’apertura effettiva, Ae e l’apertura geometrica, Ag (che è proporzionale a D2 – l’area reale di raccolta dell’antenna). Questa misura quanta potenza viene estratta dall’antenna ideale per della radiazione incidente avente una certa densità di potenza. L’efficienza, indicata con η, sarà quindi il rapporto tra questa quantità e l’apertura geometrica, riferita alla forma dell’antenna.
η = Ae / Ag
È la misura dello spostamento dal caso ideale, nel quale l’assenza di perdite di segnale comporterebbe un’area efficace pari all’area geometrica dell’antenna: η è sempre < 1, normalmente compresa tra 0.5 e 0.7 e dipendente dalla frequenza. L’efficienza di apertura dipende quindi dalla qualità della superficie dello specchio, come fessure fra i pannelli o deviazioni dalla forma teorica (gravità, vento e dilatazioni termiche concorrono a distorcere la struttura ideale), e dal bloccaggio dell’apertura causato da sostegni, ricevitori e sub-riflettore che oscurano parte dello specchio.
Il beam (fascio) è anche detto “power pattern” ed è una misura della potenza ricevuta in funzione della distanza angolare dall’asse dello strumento. Il diagramma di radiazione dell’accoppiata antenna-illuminatore (Power Pattern) è la rappresentazione tridimensionale del guadagno dello stesso. Spesso le antenne non hanno un diagramma di radiazione simmetrico ma presentano un lobo centrale e dei lobi laterali secondari che ne limitano la qualità e generano anche interferenze. Per ottenere una ricezione ottimale è necessario che il diametro della parabola corrisponda alla massima larghezza del lobo di radiazione dell’illuminatore. La risoluzione di un radiotelescopio è detta “larghezza del fascio a metà ampiezza” (Half Power Beam Width, HPBW) e rappresenta la larghezza del lobo principale a metà altezza. Si ha che HPBW ≃ λ/D. Per avere alte risoluzioni bisogna andare ad alte frequenze e usare lobi molto ampi e quindi antenne molto grandi.
Ricevitori
I ricevitori in radioastronomia servono per rilevare e quindi misurare il segnale raccolto dall’antenna e sono costituiti da diverse parti. Innanzitutto il feed (illuminatore) raccoglie la componente del campo elettrico dell’onda elettromagnetica e la trasforma in una tensione. Ha una tipica forma a tromba (horn feed) in modo da adattare la forma alle lunghezze d’onda delle microonde, ha dimensioni confrontabili con λ e va posto al centro della parabola dove è concentrata l’energia. Un illuminatore per i grandi radiotelescopi consiste in una matrice di horn feed (per le diverse frequenze) tenute a bassa temperatura. I ricevitori utilizzati in radioastronomia sono in maggioranza di tipo supereterodina, termine col quale si identificano tutti i ricevitori che convertono il segnale in ingresso in un nuovo segnale che mantenga la medesima informazione ma a frequenza inferiore. Il ricevitore si può dividere in due blocchi: il frontend, costituito da un amplificatore a basso rumore, un filtro per le frequenze più alte e quelle più basse (filtro passa banda) e un mixer che sovrappone al segnale radio un segnale monocromatico, molto più intenso del primo, generato da un oscillatore locale a una frequenza vicina a quella del segnale originale (per ottenere un’elevata stabilità). Il backend è costituito da un altro filtro passa banda e, siccome il segnale radio astronomico si manifesta come una debole tensione rapidamente variabile in modo casuale, una semplice misura del suo valore medio nel tempo darebbe un risultato nullo. Per questo motivo si utilizza un dispositivo che non misuri semplicemente l’ampiezza del segnale ma che ne effettui anche il quadrato (Square Law Detector – SQLD). Infine il segnale in uscita dal rivelatore (proporzionale al quadrato del segnale originale), viene inviato a un integratore, che ne effettua la media su un determinato intervallo di tempo per ripulirlo dal rumore introdotto dall’elettronica.
Il rumore è dovuto principalmente al ricevitore: per avere un buon risultato di un’osservazione è necessario che il rapporto tra segnale ricevuto e rumore sia alto. Per ridurre il rumore è utile avere tempi di integrazione lunghi, quindi osservare la stessa sorgente per molto tempo e avere un buon HPBW (Half Power Beam Width) che, come visto, dipende dal rapporto tra λ e D, quindi le dimensioni dello specchio primario devono essere il più grande possibile. Ci sono poi altre fonti di rumore come sorgenti al di fuori del Sistema Solare (rumore cosmico) o all’interno dello stesso (rumore solare).
In tutti questi casi ovviamente il rumore dipende dalla direzione di puntamento dell’antenna e aumenta in corrispondenza del piano galattico mentre lontano da esso si limita alla radiazione cosmica di fondo. Anche sorgenti terrestri possono essere fonti di rumore. Nell’attraversare i vari strati dell’atmosfera infatti, il segnale radio può subire attenuazioni dovute ad assorbimenti molecolari, pioggia e scariche elettriche. Quindi l’atmosfera può essere vista come sorgente di rumore aggiuntivo.
Schema di un radiotelescopio
Interferometria
Dal momento che il potere risolutivo di un telescopio dipende dal suo diametro e dalla lunghezza d’onda della radiazione incidente, ottenere ottime risoluzioni angolari su oggetti osservati con i radiotelescopi è molto difficile, poiché servirebbero diametri delle antenne di centinaia o migliaia di metri per avere risoluzioni comparabili ai telescopi ottici. Costruire radiotelescopi così grandi comporterebbe problemi legati a costi ma soprattutto a solidità strutturale: il più grande radiotelescopio del mondo, il FAST (Cina), ha un diametro di 500 m ma è costruito in una depressione carsica naturale come supporto per la parabola, quindi è un telescopio non orientabile, di transito, potendo osservare solo le sorgenti che transitano attorno allo zenit.
Si ricorre quindi all’interferometria. Un interferometro è un sistema di due o più antenne connesse tra loro, che osservano la stessa sorgente contemporaneamente. Sono tutte connesse ad un unico ricevitore, e la loro distanza (D) è chiamata baseline. La risolu-zione dell’interferometro è uguale a quella di un’unica antenna di dimensione lineare D. Ovviamente la potenza ricevuta è proporzionale alla somma delle superfici delle singole antenne, cioè la sua sensibilità è proporzionale al numero di antenne usate, S = ND2 (con D=diametro antenna). L’interferometria si basa sul concetto di interferenza: il principio di sovrapposizione esprime il fatto che l’onda risultante dalla combinazione di onde separate (interferenza) ha proprietà legate a quelle dello stato originale delle onde stesse. In particolare, quando due onde con la stessa frequenza si combinano, l’onda risultante dipende dalla differenza di fase fra le due onde: onde in fase subiscono un’interferenza costruttiva, fuori fase un’interferenza distruttiva.
Nell’hardware di un sistema interferometrico è molto importante il correlatore: i segnali provenienti da ciascuna antenna vengono infatti inviati al correlatore digitale che, basandosi sulla trasformata di Fourier, effettuerà i calcoli necessari alla correlazione dei vari segnali e darà in uscita le funzioni di visibilità per ciascuna baseline delle antenne dell’array.
Fra gli interferometri più importanti troviamo ALMA (Atacama Large Millimeter submillimeter Array) in Cile composto da 66 antenne a distanze che raggiungono i 16 chilometri, il VLA (Very Large Array) nel New Mexico (USA) costituito da 27 antenne disposte lungo 3 bracci, ciascuno lungo 21 km, a forma di Y, il VLBI (Very Large Base Interferometer) che non ha connessioni fra le antenne ed è su scala globale. I dati digitalizzati sono solitamente registrati per ciascuno dei telescopi su hard disk, poi trasferiti via Internet, con un’ “impronta” temporale generata da un orologio atomico estremamente preciso e successivamente il segnale è correlato tramite supercomputer in una base centrale di elaborazione dati.